Un libro difficilissimo da recensire, che condensa -con una prosa frammentata e un po' poetica- l'esperienza di anni di lavoro dell'autore che ha fatto lo psichiatra nel reparto di psichiatria di Genova. Racconta i colleghi, i pazienti e le loro famiglie, i tirocinanti oltre a tormenti e domande di chi ha forse voglia di dare un ordine a tutto ciò che ha visto. Chiunque abbia esperienza di reparti di psichiatria non può che ritrovarsi in molte delle parole dell'autore. Ciascuno di noi ha la sua Lucrezia, il suo Filippo e la sua Chiara, il suo dottor Rufo. Appena il lettore comincia a emozionarsi per davvero, lasciando ormeggi e perplessità -che è un libro discusso lo si sa prima di cominciarlo- l'autore si lancia in un'apologia del contenimento fisico che disorienta. E quell'arte di legare del persone del titolo diventa ambigua, non trattandosi più soltanto dell'arte di creare legami emotivi con il fine di curare, ma dell'arte di bloccare al collo, di prendere sputi e graffi per legare i pazienti ai letti e alle barelle. Anche se mille persone più competenti e strutturate di me hanno discusso e per fortuna continuano a discutere di questo tema, è impossibile nel mio piccolo, non prendere posizione. Ritengo necessario prendere le distanze da un'esposizione tanto ambigua e superficiale di quella che può essere un'esigenza dettata dalle contingenze, dall'impossibilità di fare altrimenti, può essere l'ultimo gesto in situazioni disperate, ma mai può essere vista come un'arte. L'arte persegue bellezza, l'arte si affina, contenere al massimo si può mandarlo giù, però senza mai abbassare la guardia dell'esame di coscienza e dell'autocritica. E' vero che è il reparto che contiene, non il medico, ma facciamo attenzione che questa non diventi una frase detta per deresponsabilizzarsi. Perchè partendo dalla paziente che prende il soldatino dallo studio e dal terapeuta che glielo fa prendere, è facile arrivare a pensare che anche i terapeuti più sensibili pensano che sia bene, quando ci vuole, legare le persone al letto. E questo, oltre a non esser vero, è molto pericoloso. L'autore confonde i piani alternando la delicatezza terapeutica agli sputi, e se questo è fatto per spiegare la complessità di stare in un reparto psichiatrico, allora andava spiegato un po' meglio, perché sembra che qui stia tutto nella stessa pentola e invece alcune cose non arrecano danni a nessuno, e altre invece sì. E liquidare la questione dicendo che "violenza e libertà sono tematiche psicologiche e non psichiatriche" è cosa da furbacchioni. O da persone che malgrado una grande esperienza forse sono stanche da un lavoro che -lo si sa- logora per natura.
Dopo queste premesse è un libro che va letto, pensato, ripensato e discusso da operatori e pazienti.
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